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Non chiamatele cenerentole…

Il sistema italiano delle denominazioni d’origine prevede oltre 500 vini tra Igt (assimilati a marchi Igp con la riforma Ocm), Doc e Docg (equiparati a prodotti Dop). Una cifra simile al totale delle AOC francesi (Appéllation d’Origine Contrôlée), ma con ricadute non paragonabili, per almeno due ordini di motivi. In primo luogo bisogna sottolineare come in Italia sia decisamente più bassa la percentuale delle produzioni effettivamente rivendicate attraverso una Dop (intorno al 35%, quasi il doppio in Francia). E’ opportuno poi considerare la natura poco più che “virtuale” di diverse denominazioni italiche, create con criteri geopolitici più che per rispondere ad esigenze vitienologiche concrete.

Per tanti addetti ai lavori le Doc e le Docg del Bel Paese sono semplicemente troppe e sarebbe auspicabile una loro ristrutturazione per restituirle maggiore efficacia. Al di là delle opinioni personali, è un dato di fatto l’incidenza di marchi territoriali a dir poco fantasiosi, misconosciuti anche in ambito locale, slegati da percorsi storici e in ultima analisi inutilizzati all’atto pratico. Invenzioni burocratiche, monopòli, duplicazioni, che nella migliore delle ipotesi non forniscono alcuna indicazione utile per operatori e consumatori, e in qualche caso finiscono addirittura per creare confusione.

Anche la Campania del vino ha ovviamente le sue denominazioni diciamo “deboli”, per il tipo di disegno o per la loro applicazione effettiva. Penso prima di tutto alla piccola Igp comunale Dugenta, borgo della provincia di Benevento, che da diversi anni ormai non viene più rivendicata praticamente da nessuna cantina, anche alla luce dell’intelligente riconfigurazione della piramide dei vini di qualità sanniti, completata nel 2011. Oppure, seppur per motivi diversi, ad alcune Dop create per tutelare territori produttivamente significativi nel secondo dopoguerra, ma a tutti gli effetti marginali allo stato attuale per superfici vitate e realtà operative. E’ un peccato, ad esempio, che la millenaria tradizione viticola sull’isola di Capri sia ormai tenuta in piedi solo da pochi artigiani mossi più da follia e orgoglio che da reali strategie imprenditoriali. E non credo che qualcuno avrebbe da ridire se l’areale di Castel San Lorenzo confluisse in un’unica Dop Cilento. Una denominazione già molto ampia, ma che comincia a giovarsi di una brillante forza comunicativa, come testimonia anche l’ampliamento degli impianti nella fascia sud.

Ci sono poi delle situazioni in qualche modo “intermedie”: distretti di una certa consistenza da un punto di vista storico e agricolo, che non riescono tuttavia a radicarsi nella cultura enoica, regionale e non solo. Zone di produzione che il grande pubblico fatica a collocare geograficamente e perfino ad associare alla Campania e al meridione, che si rivelano di scarso appeal nella considerazione di tanti compratori-bevitori. Magari ingiustamente, sia chiaro, ma del resto vale anche il discorso inverso: se alla classica “casalinga di Voghera” suonano familiari parole come Prosecco, Nero d’Avola, Morellino, lo stesso Brunello, non è soltanto per i loro standard qualitativi. Nonostante la grande disponibilità di informazioni, ancora oggi può risultare decisivo per la diffusione e il successo di certi vini un nome efficace, evocativo, semplice da ricordare e posizionare, sulla cartina come sulla tavola.

crediti foto: www.artlycious.co.uk

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La Campania da bere non sfugge a queste dinamiche, come ben testimoniato dall’ultima ricerca di Censis Servizi (2012), chiamata a misurare il grado di conoscenza dei marchi d’origine presso operatori e appassionati italiani. A dispetto dei continui discorsi sull’importanza dei terroir, centrale anche per il nostro portale, nel mondo reale i nomi dei vitigni risultano assai più conosciuti rispetto a tutto il resto. La classifica (proposta in appendice) è guidata da indicazioni associate a varietà come Falanghina, Fiano, Greco, Aglianico, mentre finiscono nei bassifondi le denominazioni che non si legano direttamente a una cultivar. Contrappasso che vale specialmente per quelle che hanno poche occasioni di celebrità fuori dall’ambito enoico, a differenza di Vesuvio, Cilento, Penisola Sorrentina, in parte Amalfi, molto più noti per mille ragioni.

Si fa sempre il tifo per le “cenerentole”, ma devo dire che mi dispiace particolarmente trovare nelle ultime posizioni il nome di Galluccio, la più settentrionale delle Dop campane. Non tanto per il percorso fatto fino ad adesso, a partire dalla scelta di farla battezzare da un borgo sparso abitato da poco più di duemila anime, collocato all’estremità settentrionale della provincia di Caserta, al confine col Lazio. Una zona poco esplorata dagli stessi corregionali, che si poteva forse valorizzare in maniera più efficace creando un unico comprensorio con la vicina Roccamonfina. Se non altro per sfruttare virtuosamente la notorietà mondiale raggiunta, almeno tra i superappassionati, da una vera e propria etichetta culto come il Terra di Lavoro di Galardi, per tanti anni rivendicato – appunto – come Roccamonfina Rosso Igp.

Questo “ritardo” dispiace perché le potenzialità dell’area sono evidenti, soprattutto nella vocazione a plasmare rossi, da aglianico e non solo, longilinei e caratterizzati, ad elevata propensione gastronomica. Un segmento ancora in buona parte libero, con molti spazi di mercato, anche in rapporto alle opzioni offerte dagli altri distretti regionali. Le quote conquistate negli ultimi anni dai piedirosso partenopei dicono forte e chiaro in quale direzione stanno andando i desiderata dei bevitori, italiani e non solo. E se c’è un territorio campano che può affiancarsi in questo movimento, dal mio punto di vista è proprio quello che si sviluppa alle falde del vulcano spento di Roccamonfina, per diverse motivazioni che proveremo ad approfondire.

Nella prossime puntate cercheremo di fare il punto della situazione, segnalando quelle che per noi sono le migliori bottiglie e i migliori interpreti da poter incrociare da queste parti. Ne vale la pena, anche in considerazione del fatto che i vini più rappresentativi non richiedono sacrifici insostenibili per i nostri portafogli. Forza bistrattato Galluccio, ce la puoi fare.

Grado di conoscenza dei marchi d’origine italiani – Estratto Regione Campania
(Ricerca Censis Servizi, 2012)

1. Greco di Tufo (o Greco)
2. Falanghina del Sannio (o Falanghina e Falanghina di Benevento)
3. Fiano di Avellino (o Fiano)
4. Aglianico del Taburno (o Aglianico)
5. Capri
6. Vesuvio (e Lacryma Christi)
7. Ischia
8. Costa d’Amalfi (o Amalfi)
9. Cilento
10. Penisola Sorrentina
11. Taurasi
12. Falerno del Massico (o Falerno)
13. Campi Flegrei
14. Asprinio d’Aversa (o Asprinio)
15. Casavecchia di Pontelatone (o Casavecchia)
16. Irpinia
17. Sannio
18. Galluccio
19. Castel San Lorenzo

 

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L'Autore

Paolo De Cristofaro

Paolo De Cristofaro

Irpino classe 1978, lavora a tempo pieno nel mondo del vino dal 2003, dopo la laurea in Scienze della Comunicazione e il Master in Comunicazione e Giornalismo Enogastronomico di Gambero Rosso. Giornalista e autore televisivo, collabora per numerose guide, riviste e siti web, tra cui il blog Tipicamente, creato nel 2008 con Antonio Boco e Fabio Pracchia. Attualmente è il responsabile dei contenuti editoriali del progetto Campania Stories, nato da un’esperienza ultradecennale nell’organizzazione degli eventi di promozione dei vini irpini e campani con gli amici di sempre. Dal 2013 collabora con la rivista e il sito di Enogea, fondata da Alessandro Masnaghetti.
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