Glass_of_champagne

Bollicine campane, riflessioni e punti di forza

Quello degli spumanti è uno dei segmenti che meno è stato toccato dalla crisi in Italia, nella produzione come nella commercializzazione. Basti pensare al successo, non solo sul mercato interno, dei Prosecco o il rafforzarsi di interi distretti come la Franciacorta, senza dimenticare la crescita di terroir come l’Alta Langa e l’Alto Adige. Scendendo verso il centro-sud, il fenomeno è meno evidente nei volumi, ma altrettanto significativo; si fa più importante il ruolo dei vitigni autoctoni e la Campania è ad oggi la regione che probabilmente più sta scommettendo in questo senso: Aglianico, Falanghina, Fiano, Greco, Asprinio, le varietà tradizionali vengono esplorate anche nella loro capacità di dare forma a vini con le bollicine.

Spesso si è pensato di confrontare, numericamente e qualitativamente, gli spumanti italiani con lo Champagne. Per me un paragone impossibile sia da un punto di vista “filosofico” che pratico. A maggior ragione alla luce dell’esperienza maturata in questi anni partecipando e collaborando alle sessioni di assaggio per la pubblicazione “Le migliori 99 Maison di champagne” di Edizioni Estemporanee. Un mondo che ho cominciato a scoprire e ad apprezzare grazie a coloro che hanno creduto e investito tempo e passione nelle bollicine francesi. Professionisti del calibro di Luca Burei, Fabrizio Pagliardi, Alfonso Isinelli, Stefano Scialanga e Daniela Paris sono stati i miei istruttori nella palestra dello Champagne, coloro che, grazie al peso delle loro perlustrazioni sul campo, hanno reso più chiaro questo mondo così complesso e affascinante.

Non è tutto oro quel che luccica nelle vigne di Reims e dintorni, ma chi ha ambizioni produttive sulle bollicine che vadano oltre il mero completamento di gamma non può evitare di riflettere su alcune indicazioni che arrivano dal più importante distretto mondiale per le bollicine. Storia, tradizione, latitudini, premesse territoriali, climatiche e varietali, tratteggiano enormi differenze, ma nel mercato globale contano eccome delle tendenze stilistiche “generali”. Ne vorrei sottolineare tre.

1) Evitare le dolcezze stucchevoli. Un prodotto facile rischia di diventare banale e la dolcezza pronunciata è un problema riscontrato spesso in molti spumanti italiani e campani. Anche in quelli che teoricamente non vorrebbero limitarsi alla proposta del semplice e disimpegnato aperitivo, momento in cui tutto diventa “prosecchino” anche con un Fiano, un Greco o una Falanghina nel calice (o nella flute). Gli extra brut d’altronde sono ardui per vitigni terpenici come molti bianchi italiani, quindi ok il dosaggio ma con giudizio, soprattutto nei metodo classico più importanti.

2) Spumantizzare si può ma non sempre. Successo commerciale non vuol dire automaticamente elevato livello produttivo. Il comparto è sicuramente in crescita in Campania, ma continuo ad imbattermi anche qui in un’ampia serie di etichette non del tutto a fuoco, che fanno pensare prima di tutto ad una selezione delle uve non così accurata. Vini che segnalano sensazioni di immaturità, scissioni acide o, al contrario, una tendenza a sedersi prima di iniziare la propria parabola evolutiva. Varrebbe forse la pena di fare un passo indietro e ragionare sulle condizioni preliminari di selezione delle uve in funzione spumantistica. Da che terreno provengono? C’è la base acida e l’adeguata struttura a contorno per poter spumantizzare? Il vitigno lo permette? Sono domande che ogni viticoltore che si avventura in questo difficile e concorrenziale mondo dovrebbe porsi. Ovviamente rispetto al target che si vuole raggiungere.

3) Abbasso gli scimmiottamenti. Come detto, è evidente che ci sia un grosso vantaggio di partenza per lo Champagne e in generale per quei terroir italiani che hanno alle spalle storia radicata e specializzazione. E magari possono contare su zonazioni consolidate, fino alla ricerca dei migliori siti da destinare alle uve che diventeranno spumanti. Oltretutto Chardonnay e Pinot Nero offrono caratteristiche ben diverse da Falanghina e Aglianico, inutile cercare di rincorrere ciò che non si ha. Meglio lavorare sul carattere dei propri spumanti, sulla riconoscibilità del vitigno e del territorio d’appartenenza, pur in un vino naturalmente “artefatto” come può essere uno spumante. La Campania ha una grande forza: i propri vitigni autoctoni, inimitabili lettori del territorio in tutte le sue sfaccettature, quelli che meglio si sono acclimatati. Sfruttiamoli al meglio, cerchiamo di farli rendere per quelli che sono, con i propri punti deboli ma soprattutto con i punti di forza, che sono molti. Meglio uno spumante che abbia qualcosa da comunicare piuttosto che un prodotto scialbo e banale, anche negli charmat più freschi e meno impegnativi, sia nella beva che nel portafogli. Le potenzialità ci sono, basta saperle mettere a frutto per crescere ancora di più.

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L'Autore

Alessio Pietrobattista

Alessio Pietrobattista

Romano classe 1978, ha iniziato ad approfondire la sua passione per il vino dopo l’incontro con Sandro Ferracci, condividendo le proprie espressioni su vari blog e forum tematici. Dal 2009 al 2012 ha curato una rubrica dedicata a vini e vignaioli sul quotidiano La Repubblica. Segue la Campania con regolarità dal 2010, attualmente collabora anche con il web magazine Agrodolce e l’editore Enogea, di Alessandro Masnaghetti.
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