Silvia Imparato, azienda Montevetrano di San Cipriano Picentino (SA)

Montevetrano 2001 e le riflessioni trasversali

Premessa: trattasi per me di ottimo vino, di pregevole fattura tecnica e stilistica, quello di Silvia Imparato. Un bel taglio bordolese del Sud in cui potenza ed eleganza viaggiano a braccetto, in sintonia, con la terziarizzazione che, a poco più di 13 anni dalla vendemmia, comincia a fare il proprio lavoro, sottraendo quell’esuberanza fruttata e mediterranea della fase giovanile per svelare l’anima più nobile del blend picentino. Ecco quindi il tabacco, il frutto scuro che c’è ancora, ma meno imponente, i tratti sanguigni e ferrosi che si combinano all’agrume rosso e succoso. Sorso ancora possente e vigoroso, qualche cenno di caffè a ricordare l’affinamento in barrique, tannino con qualche spigolo e sorso pieno, soddisfacente.

Dopo questa premessa si potrebbe approfondire il tema dei bordolesi campani, vini che in un certo periodo storico, a cavallo tra gli anni ‘90 e gli inizi del 2000, hanno conquistato un ruolo importante nell’enologia regionale. E invece mi viene in mente l’Aglianico: strano a dirsi e il collegamento è lo è ancora di più, perché è stata la visione del film “Barolo Boys, storia di una rivoluzione” a suggerirmelo. Un documentario sul movimento innescato da giovani viticoltori langaroli, che hanno creato una frattura col passato, imponendo una visione diversa del vino, da molti etichettata come “modernista”: via botti grandi e usate, benvenute barrique nuove, sparite le lunghe macerazioni, uso dei rotomaceratori per estrazioni rapide e intense, maturazioni in vigna prolungate per valori analitici sbalorditivi, con colori e gradi alcolici mai ottenuti prima. Un videoracconto che ben tratteggia quel movimento, senza intenti celebrativi ma ascoltando più voci, anche contrarie, fotografando un momento storico, non solo langarolo ma direi italiano, un periodo in cui gli stessi concetti presero piede in molte regioni. Basti pensare alla Toscana e all’esplosione del fenomeno Supertuscan: tutti quei vini con la desinenza -aia, alcuni dei quali nati in territori vinicoli sostanzialmente vergini e da vitigni bordolesi, che l’affievolirsi della scia modernista ha sottoposto ad una vera e propria selezione darwiniana.

barolo boys

La vitienologia regionale è stata sicuramente influenzata da quel che era accaduto nei terroir storici. Un processo testimoniato dal successo dei cosiddetti Supercampani, quei vini nati fuori dalle storiche denominazioni, di cui il Montevetrano è unanimamente considerato uno dei più eleganti, solidi e costanti rappresentanti. Una tipologia che ha trainato con sé vini appartenenti a denominazioni con disciplinari più restrittivi, in cui l’uso dei vitigni bordolesi non era consentito. Si è tentato di emulare, anche in zone climaticamente più fredde e tardive, ciò che si riusciva ad ottenere in zone più calde tramite merlot e cabernet sauvignon. Apparvero quindi i primi aglianico affinati in botte piccola, più concentrati ed estrattivi, più esplosivi e fruttati; il vino doveva stupire, doveva dare una sensazione di imponenza e importanza anche per giustificare prezzi spesso ben al di sopra della media di bottiglie pensate secondo criteri più classici.

Nel frattempo, però, le cose stavano nuovamente cambiando nei più importanti distretti italiani. Tornando alle Langhe, a fronte dell’esplosione “modernista” ci fu un’altrettanto importante controrivoluzione: produttori come Bartolo Mascarello, Baldo Cappellano e Beppe Rinaldi vennero identificati come autentici paladini, dei simboli da cui ripartire, per coloro che credevano che il nebbiolo e il Barolo dovessero tornare alle origini e ricalcare quello che per decenni era stato il modello rappresentativo dei vini della zona. Le naturali contrapposizioni ideologiche legate alla riscossa “tradizionalista” alimentarono il fermento nelle denominazioni langarole, soprattutto tra i vignerons-artigiani.

E’ così che si è arrivati ai giorni nostri e ad una situazione inedita: in Langa si manifesta un punto di equilibrio a mio avviso difficilmente riscontrabile altrove. La diversità è percepita come vera ricchezza di un territorio, messo al centro del dibattito più della tecnica e visto come il vero obiettivo comune da valorizzare e da esportare nel mondo. Si è capito che tecnologia e tradizione possono sposarsi e coesistere in maniera costruttiva, il contenitore di affinamento non è più fattore di schematizzazione, sempre più produttori propongono stili enologici in qualche modo “trasversali”.

Montevetrano '01

E la Campania? L’aggancio con questo film è nato come detto riflettendo sull’attuale panorama interpretativo dell’aglianico. Non per la solita analogia col Barolo ma perché viene da domandarsi, in parallelo: sono serviti i Campania Boys? Hanno contribuito a generare una nuova consapevolezza, una nuova visione, una riscossa dei grandi e piccoli produttori tradizionali? Per me non del tutto, a parte poche eccezioni. Vedo ancora oggi troppi vignerons ragionare per numeri, dati analitici, aspetti “quantitativi” come il grado alcolico, l’estratto secco, gli indici polifenolici, ma relativamente pochi sono quelli che sembrano interrogarsi sulle intenzioni “estetiche” delle loro bottiglie. Risultato? L’Aglianico sembra sempre più allontanarsi dalla tavola, anche i superappassionati pensano difficilmente a questo vitigno per un abbinamento perché percepito in ultima analisi “troppo di tutto”, bisognoso di componenti e materie prima che raramente si presentano nei nostri piatti. C’è proprio bisogno di un cinghiale ancora vivo per poter pensare di stappare un Aglianico? No, dal mio punto di vista, e questo deve far riflettere.

Il Casertano, il Beneventano, l’Irpinia e il Salernitano non sono le Langhe, ma rappresentano un’opportunità, sono ricchezza e diversità territoriale, variabili da interpretare, da assecondare nella loro espressione. Forse è il momento di immaginare definitivamente l’aglianico come uno strumento capace di far ragionare concretamente su concetti come le zone e i cru, ma soprattutto sulle loro personalità e peculiarità organolettiche. Mi sembra ci sia ancora un numero rilevante di rossi ancorati a visioni passate, inchiodati ad un modello di vino estrattivo e potente, maturo e dimostrativo, come se non fosse affatto superata e digerita quella fase degli anni ’90. Soprattutto nei top di gamma, che non di rado vengono “sorpassati” per armonia e bevibilità proprio dai “fratellini minori” o dalle Doc di ricaduta. Non si pretenderà mai dall’aglianico il dettaglio e l’eleganza del pinot nero, ma ho il sospetto che si possa rispettare la sua tempra lasciandolo maggiormente a briglie sciolte, talvolta.

Perché non resti l’eterna promessa, il vitigno col grande potenziale ancora inespresso. Penso sia giunto il momento di esprimersi.

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L'Autore

Alessio Pietrobattista

Alessio Pietrobattista

Romano classe 1978, ha iniziato ad approfondire la sua passione per il vino dopo l’incontro con Sandro Ferracci, condividendo le proprie espressioni su vari blog e forum tematici. Dal 2009 al 2012 ha curato una rubrica dedicata a vini e vignaioli sul quotidiano La Repubblica. Segue la Campania con regolarità dal 2010, attualmente collabora anche con il web magazine Agrodolce e l’editore Enogea, di Alessandro Masnaghetti.
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