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Il Falerno sospeso tra passato e presente

Non sarà la migliore zona vinicola del mondo, ammesso che la definizione abbia senso, ma la Campania è di sicuro una delle più divertenti. Non ci si annoia mai, c’è sempre qualcosa di nuovo da scoprire e approfondire. Ed è un piacere che molto ha a che fare con la voglia di perdersi in un flusso incessante di eccezioni, contraddizioni, paradossi.

Temporali, ad esempio: da queste parti è per certi versi più facile recuperare documenti relativi a vigne e vini di duemila anni fa, piuttosto che su quelli dell’ultimo cinquantennio. Basta dare un’occhiata a siti internet e brochure aziendali: Tito Livio, Plinio, Columella, Strabone, Marziale e compagnia resistono come fonti privilegiate da chi cerca di suggerire un inquadramento storico, ampelografico e territoriale. Là dove si fa ancora una gran fatica ad intercettare informazioni sull’era “contemporanea” del vino campano, che deve prima di tutto fare i conti – come più volte ricordato – con l’estrema gioventù della sua dimensione collettiva.

I risvolti sono molteplici, spesso di segno opposto. Da una parte c’è un valore incalcolabile sul piano antropologico e culturale: chi vuole seguire le radici più profonde del vino europeo, deve per forza passare di qua. Dall’altra accade che i fasti e le glorie del passato finiscono spesso per togliere spazio e luce alle vicende del presente, in buona parte tutto da scrivere. Un contrasto che si manifesta in maniera molto evidente proprio in quelle aree della regione maggiormente ancorate, perlomeno nelle intenzioni, al mito della Campania “felix”.

Il primo esempio che viene in mente è quello del Massico, estremità nord-occidentale della provincia di Caserta. Un distretto che ha scelto di raccogliere l’eredità millenaria del Falerno, vale a dire uno dei vini più famosi, reputati, recensiti dell’antichità. Patrimonio a dir poco impegnativo, che diventa zavorra nel momento in cui le bottiglie di oggi non restituiscono fino in fondo la medesima grandezza esaltata dai libri. Non è semplicemente una questione di vini più o meno buoni o interessanti, quanto di aspettative. Non è di certo il bevitore distratto a coltivarne la leggenda, per cui l’efficacia evocativa del nome Falerno è minima su larga scala. Né si concretizza più di tanto nella cerchia dei consumatori evoluti e formati, che giustamente si attendono qualcosa di esclusivo, di unico, di straordinario. Se è vero – come è vero – che i vini del Massico erano considerati in età tardo repubblicana e primo imperiale al livello degli odierni grand cru di Bordeaux e Borgogna. Per blasone, qualità, rarità e prezzi.

Dop Falerno del Massico

E torniamo al discorso di prima. Sul Falerno di duemila anni fa abbiamo a disposizione una documentazione pressoché sterminata. Possiamo ricostruirne con sufficiente attendibilità il profilo organolettico, molto diverso da quello attuale, dato che i vini dell’antichità erano spesso addizionati con miele, spezie e talvolta acqua di mare, anche per allungare i tempi di conservazione. Così come siamo in grado di delineare una sensata piattaforma territoriale, dislocata tra la piana mondragonese e le colline di Terra di Lavoro, alla base di quella distinzione che Plinio il Vecchio suggeriva tra Caucino (il vino prodotto sulla sommità delle colline), Faustiano (a mezza costa) e Falerno “generico” (dai siti in pianura). Non solo: riusciamo addirittura ad intercettare informazioni dettagliate sulle migliori vendemmie di età romana, sul loro potenziale di invecchiamento, i costi di acquisto, le finestre di consumo, i personaggi che hanno reso omaggio alle anfore migliori, e così via.

Il Falerno del duemila ha tanta strada da fare per raggiungere quel prestigio. Dispiace dirlo, ma le cose stanno così. Ed è perfettamente normale, se consideriamo che l’attività di produzione in zona è ricominciata con determinate ambizioni da meno di un cinquantennio. Dapprima con Michele Moio a Mondragone e Villa Matilde della famiglia Avallone (ai cui inizi è dedicato il prossimo post-documento di Campania Stories), poi con una serie di nuove aziende, perlopiù di piccole dimensioni, nate soprattutto negli ultimi 10-15 anni. Sono oggi poco più di una ventina le realtà operative nel comprensorio, ma i volumi rivendicati attraverso la Dop sono ancora piuttosto limitati (meno di 300.000 bottiglie di Falerno commercializzate con l’annata 2010). In compenso si è certamente arricchito lo scenario stilistico, rendendo possibile un primo abbozzo di mappatura territoriale. Ed è da qui che vale forse la pena di partire, o forse di ripartire, destinando energie fresche al racconto di quello che concretamente possiamo trovare attorno al Massico e magari lasciando un attimo da parte la retorica sui convivi imperiali.

Monte Massico

Monte Massico

Il Falerno di oggi sembra un po’ un apolide, non soltanto da un punto di vista temporale. Per molti appassionati, italiani e stranieri, è un nome ancora piuttosto difficile da collocare. Sia geograficamente (pochi sanno che si tratta di un vino campano), sia da un punto di vista organolettico: la tipologia Bianco è praticamente misconosciuta, mentre c’è un’idea sommaria relativa ai rossi, immaginati intensi e corposi, da destinare alle occasioni importanti più che alla tavola di tutti i giorni. Senza dimenticare la confusione generata da interpretazioni a volte antitetiche, anche in ragione di una base ampelografica in cui convivono varietà di indole molto diversa, come aglianico, piedirosso e primitivo.

Chi compra e stappa una bottiglia di Falerno è in qualche modo chiamato a padroneggiare preliminarmente le variabili viticole e stilistiche. E mettere in conto un range espressivo molto ampio: vini severi ed austeri, non così diversi da quelli delle zone interne dell’Irpinia e del Sannio, accanto a rossi decisamente più generosi e mediterranei, passando per letture in qualche modo “intermedie”, nella struttura più che nella dinamica.

Difficoltà di lettura spesso segnalate anche dalla stampa di settore, specie quella straniera, a partire da quella incontrata durante gli eventi di Campania Stories. I feedback parlano di vini il più delle volte descritti come cupi, estrattivi, monodimensionali, con tannini di grana gessosa, riconducibile anche ai legni di affinamento. Chi ha avuto modo di visitare le cantine della zona, sa bene che l’enologia massicana non è così diversa da quella di tutti gli altri distretti regionali, per cui un ragionamento su mere questioni di protocolli tecnici ha poco senso. Ma è interessante interrogarsi sul perché non venga colta da assaggiatori professionisti, se non sporadicamente, quella personalità affumicata e vulcanica indicata come marcatore inconfondibile dei migliori Falerno. Nei vari report viene dichiarata una sorta di “delusione” per l’attuale livello della denominazione, sia per quel che riguarda le bottiglie più ambiziose, sia per le tipologie sulla carta più semplici.

Si diventa esigenti, insomma, quando compare il nome Falerno sull’etichetta, magari proposto sul mercato dopo un lungo invecchiamento. E scatta inevitabilmente il confronto con i migliori rossi italiani: sul piano della forza e del vigore la partita appare aperta, meno su quello della profondità e della stratificazione. Ma faticano, come detto, anche i cosiddetti “base”, che solo raramente si traslano in bottiglie ariose e rilassate, di facile collocazione gastronomica. Non è facile, oltretutto, distinguere le due categorie in un’ipotetica orizzontale: nello stesso periodo dell’anno vengono commercializzati dai produttori della zona vini provenienti da almeno 3-4 annate diverse. Non c’è una vendemmia di riferimento per ciascuna stagione, come accade per esempio a Montalcino o in Langa, ma ogni azienda segue i suoi cicli di affinamento e fa uscire le nuove versioni quando sono terminate le bottiglie del millesimo precedente.

Michele Moio e i fratelli Salvatore e Maria Ida Avallone

Michele Moio e i fratelli Salvatore e Maria Ida Avallone

Al di là delle lodevoli eccezioni, che pure ci sono, il Falerno contemporaneo appare ancora alla ricerca di una chiara identità, in ultima analisi. Né carne né pesce, viene da pensare in diversi casi: non sono vini di pronta beva ma nemmeno rossi da invecchiamento in senso stretto. Bottiglie sì longeve, ma non per questo sempre migliorate in maniera significativa dall’affinamento. Abbiamo tanti esempi di Falerno pienamente integri dopo dieci e più anni, ma in poche occasioni si ha la sensazione di un’attesa che ha lavorato virtuosamente, rendendoli più cesellati e completi. Anche dopo lustri molti restano compressi, rigidi, quasi ingessati, svuotandosi progressivamente nel frutto e finendo per diventare ancora più austeri e asciutti.

Un’armonia più compiuta tra passato e presente è però perseguibile: le potenzialità del terroir ci sono tutte e hanno avuto comunque modo di manifestarsi in maniera concreta, seppur con grande discontinuità. Penso soprattutto ad alcuni vecchi Vigna Camarato di Villa Matilde, ancora oggi capaci di stupire col loro fascino forse crepuscolare ma orgoglioso. Ma anche a singole riuscite proposte da vari protagonisti del comprensorio, magari in maniera sporadica e sparpagliata. Si possono fare eccome grandi vini, grandi per davvero, tra le colline del Massico, e qualche volta forse sono già stati fatti. Ed è un gruppo probabilmente destinato ad infoltirsi se saprà crescere ulteriormente la consapevolezza, estetica più che tecnica, dei vari interpreti. Non importa se il Falerno di oggi riuscirà a recuperare il prestigio di cui godeva duemila anni fa: un’eredità del genere merita in ogni caso progetti ambiziosi, pensati per plasmare bottiglie di statura assoluta. Plinio, Marziale, Strabone e compagnia sarebbero contenti comunque.

Per altre sulla denominazione Falerno del Massico, clicca qui

 

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L'Autore

Paolo De Cristofaro

Paolo De Cristofaro

Irpino classe 1978, lavora a tempo pieno nel mondo del vino dal 2003, dopo la laurea in Scienze della Comunicazione e il Master in Comunicazione e Giornalismo Enogastronomico di Gambero Rosso. Giornalista e autore televisivo, collabora per numerose guide, riviste e siti web, tra cui il blog Tipicamente, creato nel 2008 con Antonio Boco e Fabio Pracchia. Attualmente è il responsabile dei contenuti editoriali del progetto Campania Stories, nato da un’esperienza ultradecennale nell’organizzazione degli eventi di promozione dei vini irpini e campani con gli amici di sempre. Dal 2013 collabora con la rivista e il sito di Enogea, fondata da Alessandro Masnaghetti.
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