Mastroberardino - Fiano Radici 2004

Orizzontale Campania 2004 Preview: Fiano Radici, Mastroberardino

Ogni anno, il due novembre, c’è l’usanza per i defunti andare al cimitero.
Come dar torto al principe De Curtis e al celeberrimo incipit di ‘A livella (vedi link più giù), probabilmente la sua poesia più bella e densa di significato. Consuetudine alla quale di solito ne aggiungiamo un’altra, là dove il noi comprende alcuni amici e colleghi di lungo corso. E’ il giorno in cui ci ritroviamo annualmente per assaggiare un po’ di bottiglie campane che hanno completato il decennio dalla vendemmia.

Non è una data scelta casualmente. Darci appuntamento il due novembre ci aiuta innanzitutto a ricordare che siamo tutti ospiti provvisori in questo mondo e che non vale forse la pena di prendersi troppo sul serio, a maggior ragione se disquisiamo tutto sommato di frivolezze, che hanno a che fare con il piacere dei sensi, il tempo libero, le preferenze personali. Ognuno vive la propria parabola ed è legge universale: si nasce, si cresce, si muore, nessuno escluso. E per il vino funziona nello stesso identico modo: non esistono bottiglie realmente eterne, non fosse altro per la difficoltà, che a un certo punto diventa impossibilità, di reperire flaconi con 50, 100, 300 primavere sulle spalle. Siamo nel giusto quando diciamo che la bevanda cara a Bacco è cosa viva, perché come ogni essere vivente segue un ciclo naturale che prevede un inizio, una finestra evolutiva, un periodo di decadimento e una fine. Quella che nelle tipologie “normali” riconosciamo attraverso i processi di maderizzazione, e relative manifestazioni organolettiche.

Per tanti appassionati sparsi per il globo, una parte fondamentale del proprio piacere nel rapportarsi al vino ha molto a che fare con questo cammino costantemente in bilico tra esistenza e scomparsa. Non funziona chiaramente allo stesso modo per tutti, bevitori ed etichette, ma si può in qualche modo semplificare nel desiderio di godersi le proprie bottiglie sul punto più alto della loro collina espressiva, nel loro momento di grazia. E’ un’aspirazione spesso frustrata, perché non è dato sapere con precisione dove ci attenda quell’apice. Ed è il motivo per cui, a fronte di amici che non si sognerebbero mai di aprire un grande Pauillac o un Taurasi prima di vent’anni, ne conosco molti di più che preferiscono seguire gli insegnamenti del carpe diem. “Meglio dieci anni prima che un’ora dopo”, c’è scritto sulla lavagnetta che presidia la cantina di un sodale di bevute, meglio conosciuto nella cerchia come “Erode”.

Chi è abituato a bere solo quello che gli viene regalato non può capire veramente il valore dell’attesa, direttamente proporzionale ai sacrifici da sopportare per concedersi certe bottiglie, l’unico materiale didattico possibile per un assaggiatore. Ecco perché in molti casi vengono liquidati come sprechi di tempo e giochetti da enonerd gli spazi dedicati alla condivisione di informazioni sulle annate, sulle loro caratteristiche e finestre di consumo, le retrospettive, e così via. Eppure costruire questo tipo di documentazione è l’unico modo per, non dico eliminare, ma quanto meno ridurre gli “errori” relativi agli ideali momenti di stappatura, ciascuno secondo le proprie esigenze. Un valore doppio quando abbiamo a che fare con tipologie che hanno nel proprio dna la capacità di viaggiare e crescere con autorevolezza nel tempo, regalando emozioni a distanza di anni. Come i migliori Fiano di Avellino, sempre più universalmente considerati nella loro dimensione di “bianco da invecchiamento”.
Non esiste un orologio “ufficiale” che conferisca le patenti di longevità, ma è ormai convenzione accettata quella che fissa nella scadenza del decennio dalla vendemmia l’intervallo minimo che separa i vini da attendere con pazienza e quelli preferibilmente da cogliere in gioventù. Riassaggiare e raccontare oggi un numero significativo di Fiano di Avellino 2004, insomma, non è solo un piacere ma anche un dovere per chi vuole offrire un servizio a categorie di acquirenti troppo spesso trascurate.

Siamo felici di ritrovarci insieme il due novembre anche per ragioni “culturali”, passatemi il termine. Il giorno dei morti ha sempre avuto uno straordinario valore simbolico per tante comunità di tradizione agricola, specialmente nel sud appenninico. Nella zona del Taurasi, e non solo, era la data che storicamente designava l’inizio della raccolta per l’aglianico: che fosse millesimo freddo o solare, precoce o tardivo, nessun contadino irpino o vulturino o sannita si azzardava a tagliare un grappolo prima della ricorrenza dedicata ai defunti. E’ stato così praticamente per tutto il novecento e solo in epoca recente si ha memoria di raccolte ottobrine nelle zone interne più vocate al vitigno. Fermo restando che ancora oggi si ha notizia di vecchie vigne, ubicate nei territori di Montemarano, Torrecuso o Barile, in cui mai, in nessuna occasione, si è vendemmiato prima del due novembre, nemmeno nelle caldissime e precoci stagioni 2003 e 2007. C’era e permane nel meridione un evidente potere rituale nel giorno dei morti, e mi piace pensare che un po’ di questa energia si trasferisca anche a noi mentre giochiamo con cavatappi e bicchieri.

Sono molto curioso di rimettere mano a questa strana 2004 campana, annata spesso descritta come “classica” dalla Valle d’Aosta alla Sicilia, una sorta di ritorno alla normalità dopo due vendemmie estreme, seppur per motivi opposti, come 2002 e 2003. Partito coi favori della critica, è un millesimo che si è presto rivelato molto più eterogeneo del previsto, per effetto di una stagione prolungata, partita e chiusasi in ritardo rispetto ai tempi canonici, caratterizzata da un’estate tutto sommato fresca. Più del meteo, però, sembrano aver pesato nella gerarchia delle interpretazioni le abbondantissime rese: in quasi tutti i distretti italiani la 2004 è di gran lunga l’annata più produttiva del ventennio e spesso la differenza l’hanno fatta quei vigneron che sono riusciti a contenere l’incredibile vigoria delle piante. La Campania non fa eccezione ed è praticamente impossibile delineare un profilo univoco per tutte le zone e i vitigni. Mi sembra di poter dire, comunque, che in linea di massima sono soprattutto i bianchi della regione ad aver avuto un’evoluzione meno felice del previsto. Impressione ricavata attraverso i riassaggi degli ultimi due-tre anni, nei quali mi sono capitate diverse bottiglie già nel pieno della maturità, provenienti un po’ da tutte le aree. Limiti di longevità che si sono manifestati anche in alcuni dei più reputati Fiano irpini, compensati nelle migliori versioni da un’irresistibile personalità affumicata, facilmente riconducibile a quella di certi Borgogna, anche maturati in rovere.

Sono ragionevolmente convinto che si segnalerà tra i top dell’orizzontale il Radici Fiano 2004 di Mastroberardino. L’ho ristappato qualche sera fa, incontrandolo in forma smagliante, integro e brillante, senza alcun segnale di quella sofferenza terziaria che aveva caratterizzato gli ultimi test sull’annata. Melone pane, pesca bianca, erbe da cucina, tocchi di anice e muschio, leggero sottofondo iodato, il naso non è profondissimo ma ampio e rifinito, molto coerente con lo sviluppo del sorso. E’ di struttura media, ha alcol misurato, gioca elegantemente con gli agrumi e il sale, chiude preciso, appena freddo e tirato tra ricordi fermentativi. Non è il 2003, che è probabilmente uno dei migliori bianchi di sempre prodotti dalla cantina di Atripalda accanto ai Radici Fiano ’92 e al ’95, ma non siamo certo lontani dalle vette del vitigno.

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L'Autore

Paolo De Cristofaro

Paolo De Cristofaro

Irpino classe 1978, lavora a tempo pieno nel mondo del vino dal 2003, dopo la laurea in Scienze della Comunicazione e il Master in Comunicazione e Giornalismo Enogastronomico di Gambero Rosso. Giornalista e autore televisivo, collabora per numerose guide, riviste e siti web, tra cui il blog Tipicamente, creato nel 2008 con Antonio Boco e Fabio Pracchia. Attualmente è il responsabile dei contenuti editoriali del progetto Campania Stories, nato da un’esperienza ultradecennale nell’organizzazione degli eventi di promozione dei vini irpini e campani con gli amici di sempre. Dal 2013 collabora con la rivista e il sito di Enogea, fondata da Alessandro Masnaghetti.
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